Maryann Russo non ha voluto far sopprimere il suo cane terminale. La sua decisione è finita in tribunale e oggi divide l’opinione pubblica.
Ha fatto discutere, e continua a farlo, il caso giudiziario che ha visto come protagonista Maryann Russo, una donna residente nel Massachusetts, finita sotto accusa per non aver dato il consenso all’eutanasia del suo cane, gravemente malato. La vicenda ha sollevato un acceso dibattito in merito a diritti, doveri e limiti del rapporto tra umano e animale, con un’opinione pubblica profondamente spaccata.
Il cane in questione si chiamava Tipper e aveva 14 anni. Dopo una vita trascorsa in un contesto sereno e familiare, Tipper aveva sviluppato una massa tumorale sul fianco. I veterinari avevano suggerito un intervento chirurgico, ma vista l’età avanzata dell’animale, Maryann ha preferito non sottoporlo all’operazione, ritenendola troppo rischiosa.
A distanza di poche settimane, le condizioni di Tipper sono drasticamente peggiorate. La massa era diventata necrotica, il cane faceva fatica a respirare e i veterinari hanno rinnovato il consiglio di procedere con l’eutanasia. Anche in questa fase, però, Maryann ha rifiutato, scegliendo di portare il cane a casa, affinché potesse trascorrere gli ultimi momenti in un ambiente conosciuto.
La decisione, tuttavia, ha avuto conseguenze giudiziarie. A sette mesi dalla morte di Tipper, la donna è stata denunciata per maltrattamenti, con l’accusa di aver prolungato inutilmente la sofferenza dell’animale. Secondo l’impianto accusatorio, la mancata eutanasia costituiva una violazione del benessere animale. Il caso è approdato prima davanti alla Corte Distrettuale di Quincy e successivamente in appello.
Entrambe le corti hanno però stabilito l’assoluzione di Maryann Russo. Secondo i giudici, la donna non ha agito con l’intento di far soffrire il cane, ma piuttosto è rimasta bloccata da un legame emotivo fortissimo, che ha reso estremamente difficile una decisione razionale. Nonostante ciò, la sua scelta ha alimentato un intenso dibattito.
Per molti, l’amore della donna verso il suo cane non giustifica la sofferenza evitabile. Per altri, invece, l’obbligo di eseguire l’eutanasia non può essere imposto per legge in assenza di crudeltà intenzionale. La vicenda ha messo in evidenza un vuoto normativo e ha riacceso la questione su chi debba avere l’ultima parola quando un animale è in fin di vita.
Il caso Maryann–Tipper ha posto sotto i riflettori la complessa intersezione tra legge, etica veterinaria e legame affettivo. In molti si chiedono se, in situazioni simili, non sia necessario attribuire un potere decisionale più forte ai medici veterinari, quando il prolungamento della vita coincide con un incremento della sofferenza.
Al momento, resta un vuoto che la legge non colma del tutto. E mentre i tribunali hanno deciso, il dibattito resta aperto, con la consapevolezza che la via più giusta non può prescindere da una combinazione equilibrata di empatia, razionalità e responsabilità.
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